VINCITORE PRIMO PREMIO #InWebWeTravel
Questo post, lettera, ha partecipato al concorso indetto dal Festival Della Letteratura di Viaggio 2015, #InWebWeTravel, ed è stato proclamato vincitore del primo premio.
Etiopia – Novembre 2014
Caro Valerio,
ti scrivo dopo tanti giorni perchè ormai è chiaro che comunicare con il mondo, lasciato alle mie spalle, può accadere 1 volta a settimana, a 2 ore di minubus da qui.
Oggi è stata una giornata dolorosa, una di quelle che avrei voluto non vivere anche se, come ormai mi sembra di ripetere ad oltranza da quando sono arrivata in Etiopia, “come sempre” è stata una lezione che mi ha sbattuto in faccia i dolori di una terra che comincio a sentire non tanto distante da me.
Per lo meno nel rivedermi umile, fragile e piccola, esattamente come i miei amici neri che qui, in fila indiana, ogni giorno attendono silenziosamente per ore il turno per farsi curare, farsi fare l’iniezione, farsi diagnosticare la malattia o ripulire le ferite che ormai sono diventate grandi e da voltastomaco.
Perchè qui si arriva solo quando ormai il dolore è insopportabile.
Questo clinica nel bel mezzo del niente, nel cuore dell’Etiopia, dove fino a un anno fa neanche arrivava una strada asfaltata, lontana da tutto e da tutti ma che fa grandi cose per la comunità, mi ha obbligato ad imparare ad accettare la vita come un dono e la morte come un accadimento da sopportare e che può capitare, nonostante il contesto bucolico in cui si trova.
E’ accaduto oggi un evento di dolore infinito che, a fronte di tanta vita che ho visto arrivare in queste settimane qui e momenti di gioia condivisa con le famiglie in attesa, mi ha trascinata in un angolo, vicino ai buoi e alle mucche che pascolano, a cercare di farmi per l’ennesima volta una ragione di ingiustizie che a leggerle su carta ti rattristano e viverle in prima persona ti devastano.
Speravo questo senso di tristezza stessa andando via, ma oggi è tornato. Più forte che mai.
Era il terzo figlio, un tucano stamattina batteva contro la finestra, non è la prima volta che accade, e sembra voler essere messaggero di un nuova che tanto buona non è. Un messaggero dal cielo ma anche un brutto presagio, come che la natura sapesse già prima di te, animale apparentemente più intelligente, quali saranno le sorti della giornata.
Purtroppo la donna non ce l’ha fatta. Il villaggio intero aspettava fuori trepidande, come la tradizione vuole che questo evento di nuova vita venga celebrato: tutti insieme perchè la gioia di uno è gioia di tanti.
La madre della donna nel vederla andare via in ambulanza e che nel rincorrerla è caduta sbucciatandosi il ginocchio rialzandosi faticosamente, tra le lacrime in cuor suo, credo, sapesse che non avrebbe più rivisto sua figlia.
Non un urlo, non un gesto folle, solo un silenzioso pianto e gli occhi lucidi dai quali scendevano delle lacrime solcando la pelle rugosa e stanca di chi qui vive una vita dura fatta di campo e malaria. Ed in silenzio attendeva.
Piangeva, come qui fanno bambini ed adulti, senza isterie ma con quieto e dignitoso silenzio, coprendosi il volto e scuotendo la testa.
La morte è dura da accettare anche qui dove non si spera nè si pretende l’immortalità e viene vissuto come un fatto possibile e, temo, probabile.
La seguo con lo sguardo, mi avvicino, più che stringerle le piccole e magre spalle, che delineano un corpo minuscolo di pelle ed ossa camuffato da più strati di stracci, non so che fare, lei mi guarda e gli occhi mi implorano di dirle qualcosa, di spiegarle.
So che lei non sa.
Un sorriso, ma non funziona, c’è poco da sorridere quando una mamma nel donare la vita ha perduto la propria.
Spero quindi che possa passare quei 10 minuti a bere il caffè nella speranza di potere riabbracciare la figlia, e spero che questa possa avere avuto il tempo di essere salvata, ma qui sperare nei miracoli è cosa da sognatori
La bambina è viva, terza di tre fratelli saranno accuditi dalla nonna ed allattati da una vicina, è così che si fa nei villaggi, ci si aiuta.
L’Etiopia ricorda quanto la comunità sia fondamentale, quanto da soli non si vada da nessuna parte, non c’è Africa senza comunità, senza reciprocità, anche nella povertà più assoluta.
In amarico le sue ultime parole sono state: NON VOGLIO MORIRE.
Sapeva quello che stava per accadere, nel mentre che le energie per spingere la piccola venivano a mancare.
E’ giusto tutto questo? Ha senso farsi domande?
Le ostetriche giovani professioniste a contratti a singhiozzo in Italia, che hanno deciso di dedicarsi all’Africa e che qui danno il tutto per tutto facendo dei lavori degni da premio nobel, dedite ed impegnate nel fare piuttosto che nel parlare, hanno gli occhi gonfi e perduti nel niente.
Non è colpa di nessuno se non del trovarsi in una terra dimenticata in balia del destino.
Dei rayban arancione fosforescente coprino un volto che so non vuole essere avvicinato. Non ora.
Si colpevolizzano, ma come fai a darti una colpa quando ti trovi a lavorare a certe condizioni e con materiali che rasentano meno del minimo in un Paese occidentale?
Non si possono fare domande perché risposte non se ne avranno, e quelle che si hanno rattristano, fanno arrabbiare, fanno gridare alle continue ingiustizie, anche quelle divine.
Un dottore, diceva la mia coinquilina Francesca ai tempi dell’università allora studentessa di malattie infettive e tropicali, è per la vita come per la morte e questa deve imparare ad accettarla.
Non c’è gratificazione medica che può sopperire a una perdita, e questo lo imparò a sue spese e dopo pianti ininterrotti al veder andar via pazienti di cui si prese cura per lunghi periodi ormai completamente inermi di fronte ai mali più atroci ed incurabili.
Il villaggio nel mentre attende fuori, un gruppo colorato di donne sedute a terra che regge un ombrello per ripararsi dal sole.
All’annuncio infausto, si alzano tutti in piedi, le sciarpe che avvolgono la testa delle donne si sciolgono per raccogliere le lacrime, una lenta processione si stringe attorno al dolore della famiglia.
Povere nobili lacrime nere che li rendono tali e quali ai fratelli sparsi in tutto il mondo.
Torno così a scuola per la lezione di inglese con la terza classe, una ventata di allegria in un contesto di morte, lacrime e dura realtà con cui si è tutti dovuto fare i conti, come se quella di tutti i giorni non bastasse.
Hanno i vestiti strappati e sporchi, alcuni sono senza scarpe. Ma sono belli, tutti.
Mi chiedo cosa faranno da grandi, forse i pastori o i contadini. In fin dei conti dopo scuola si va a far pascolare le mucche e le pecore.
Proprio come quel bambino di 9 anni che ogni volta che mi incontra mi ripete solo due parole: tshirt e pen.
Piccoli ma già adulti, una innocenza che termina troppo presto e una vita dura che ti obbliga ad essere uomo e donna prima di quanto sarebbe giusto accadesse.
Solo chi viene qui e si cala fino a questo punto si scontra con la miseria di chi prova il tutto per tutto per una vita migliore. Solo chi si spoglia di comfort e benessere può capire cosa significa vivere di nulla ma aver la capacità di lasciar spazio al sorriso.
Una gonna strappata a quadri, una giacchetta gialla con le toppe, le scarpine di gomma, un libro di matematica, uno di amarico e uno di inglese.
Una penna. Non tutti hanno lo zainetto, alcuni portano i libri in buste di plastica.
Ma quelle domande a non finire e ripetere ad oltranza le frasi che ogni giorno, a fatica, insegnavo.
Quel voler essere i primi della classe. Quel cercare di essere i preferiti, sfiorando le mie mani timidamente, o il saltarmi in braccio senza lasciarmi e stringermi forte forte. Quel seguirmi passo passo per far si che io non mi dimentichi di loro (come potrei!).
In fin dei conti i bambini sono uguali in tutto il mondo.
E’ passata finalmente questa giornata e a cena abbiamo pregato, anche io, che non lo faccio mai, l’ho fatto ad alta voce.
Un pensiero ed un saluto per la nuova anima ormai andata che ha lasciato un piccolo dono nero a questo mondo non sempre giusto con i giusti. E che, nonostante tutto, sia la benvenuta.
L’elettricità è andata via di nuovo, ormai va via quasi tutte le sere, così leggerò con la torcia in testa finchè non mi addormenterò.
La giornata qui comincia seguendo il passo del sole e finisce al calare.
E anche stasera chiuderò gli occhi leggendo di avventure in terra africana, questa stessa che sto calpestando e che mi sta travolgendo ed avvolgendo con forze alterne intense alla stessa maniera.
Nella vita. E nella morte.
Ti abbraccio forte mio paziente ascoltatore che, anche se a distanza, riesci a farti carico dei miei pesi che al momento non riesco a reggere da sola.
Giulia
Ps. Grazie per le generose donazioni che hai fatto, hai contribuito a una causa importante e di questo te ne siamo grati tutti. Quando donato verrà utilizzato nei prossimi giorni per comprare i medicinali. Un piccolo aiuto per te è un grande aiuto per tutti noi.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]