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Dopo aver vissuto 18 anni su 36 in grandi città non mie, e dopo aver creduto che io con la Sicilia avessi  “pocu di spattiri” (tradotto da dividere ma inteso come poco un comune) queste settimane in giro mi hanno fatto capire che la verità sia ben lontana da quanto pensassi.

Oltre alla bellezza antica e lenta, quella che sembra non voler cambiare mai, queste settimane hanno riportato a galla le origini di alcune passioni che non ho mai saputo davvero da dove provenissero, ma che nei miei viaggi ho sempre cercato.

I mercati caotici. Le case e i quartieri antichi e a volte trasandati o sgarrupati. I dialetti e le tradizioni popolari.

vucciria

Forse per questo motivo non mi hanno mai attratta citta quali New York o Sydney.
Dove tutto è nuovo, grande ed apparrentemente perfetto. Ma dove c’e anche troppa gente poco intetessata a me. Puntino tra i puntini perduto tra grattacieli e strutture scintillanti. Preferendo invece le strade polverose e semplici d’Africa in cui, fermarsi e parlare con qualche sconosciuto e l’attività principale a cui dedicarsi.

La Sicilia è sicuramente diversa.

In Sicilia si chiacchiera. Sempre. Anche fermando la macchina in mezzo alla strada per un salutino. E chi sta dietro attende, come se ci fosse un tacito patto per cui vale la regola dell’oggi a me e domani a te.
I vecchi pescatori che non escono piu in mare raccontano. In dialetto. Senza badare o considerare la minima possibilità che l’interlocutore non capisca.

Storie di Rais e tonnare, di pesche floride e vite nei mari, storie di campagne e pomodori. Zucchine. Peperoni ed ovviamente melanzane.

Ma cuntassi (me lo racconti).

Io e il signor Corrado a Portopalo di Capo Passero bevendo un caffe di fronte a quel mare in cui ha vissuto 30 anni e che, a causa di una cecita che a breve lo farà vivere nell’ombra, mi racconta dei tempi andati.
Di Marzamemi che puzzava di pesce sotto sale (attività principale del villaggio) e non era quella che oggi vediamo, giu in foto.

Itinerari sballati perché dovunque sia andata un Sig. Corrado mi sequestrava per quelle due paroline che durano quanto un pranzo al sud.
Una infinità.

Un ritorno alle mie origini tanto sfuggite che mi hanno invece riacchiappata. La malinconia dei saluti e loro, la gente di mare, che del suo suono si ubriaca, che si siede in silenzio ad osservarne i movimenti quasi come che quello che accade attorno non gli importasse.
Eppure, in una corsa disperata verso il bagno del bar più a sud d’Europa, isole escluse, mi chiama:

“Signurina, vinissi ca’”
“Mi dica”
“Chi pensa lei? Non è chiustu u postu cchiu bellu du munnu?”
Guardo la costa che dall’altro degli scalini diventa ancora più bella di quanto non lo sia dalla riva.
“Io, credo di si”

Traduco: Signorina, venga qui. Mi dica. Non crede che questo sia il posto più bello del mondo? Io, credo di si”
Conversazioni con un ex-pescatore a Portopalo di Capo Passero

Godiamoci l’ultima giornata nella terra del mare, del sole e dei giardini di pietra.
In cui tante cose non vanno. Ma forte nella identità.

Giulia Raciti

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