Al momento stai visualizzando Non chiamatemi Travel Blogger

E’ ormai da un anno, o poco più, che lentamente ho tolto likes da vari siti di travel blogs e mi sono cancellata da gruppi di travel bloggers in cui le uniche domande, che sembrano essere ridondanti, hanno più a che fare con il business che c’è dietro piuttosto che con il viaggiare.
La domanda più frequente è: Come posso farmi sponsorizzare un viaggio? Oppure, l’ente del turismo X cerca blogger per andare in destinazione Y.

Quando anni fa ho cominciato a scrivere del mio giro del mondo, la realtà consolidata del travel blogging per come la si conosce oggi, dei viaggi sponsorizzati e dei blog tours, o press trips che dir si voglia, era qualcosa che non tanti facevano e chi lo faceva pareva essere un privilegiato tra tanti personaggi che ci provano.

Negli anni poi sono nate le associazioni di bloggers, i gruppi chiusi, le strategie di comunicazione, gli ebooks per insegnarti come farti sponsorizzare il viaggio e via dicendo.

Viaggi che sono più vacanze e haime, mi dispiace dirlo, mi sembrano sempre più uguali gli  uni a gli altri.
Da qui il mio progressivo allontanamento da un mondo in cui non riuscivo a sentirmi più a mio agio e di cui non volevo sentirmi parte per tanti motivi oltre che una sorta di repulsione per tutto ciò che fosse “live twitting” o live whatever.

Amo viaggiare entro le mie possibilità, soprattutto economiche.
Da anni non viaggio per vedere luoghi ma per vivere nei posti che scopro e l’unica maniera che conosco per farlo è in maniera indipendente e con i mezzi preferendo a rinunciare ad esperienze a 5 stelle o che mi fanno fare il grand tour ma fermandomi quando e dove ne ho voglia.
Amo viaggiare alla mia maniera perchè è l’unica che conosco che mi può regalare esperienze di viaggio che cerco e che mai nessun ente del turismo potrà offrirmi, se non quelle pianificate a tavolino in cui il mio dire è poco rilevante e durante le quali non potrei cambiare idea.

Per qualche anno sono stata etichettata come travel blogger, in verità mi autoetichettavo pure io, anche se non capivo se davvero fosse un lavoro.

Mi sono chiesta numerose volte, io personalmente in che senso posso definirmi una professional travel blogger quando in verità di questa attività non ci stavo davvero guadagnando se non in maniere molto trasversali?

Tutti introiti che non avrei oggi se non avessi continuato a viaggiare come ho sempre fatto.

Qualche mese fa mi è stata richiesta una intervista e tra le domande mi è stato chiesto: Ti piace lavorare come Travel Blogger?

In quel momento mi sono chiesta se davvero lo fossi. Io non lavoro come travel blogger e anche se so benissimo come e cosa si dovrebbe fare per entrare nel circuito, i vari eventi, conferenze, gruppi, scrivere a gli enti, fornire dati (ed i miei non sono niente male), numeri, e via dicendo, la verità è che non mi interessa.

Da quando ho 15 anni mia madre mi ha iniziata all’indipendenza, mi ripeteva sempre “se vuoi un surplus a quello che già hai devi guadagnartelo”.
Andai a lavorare nelle vacanze estive mentre tutti i miei amici andavano al mare, ed assicuro che è dura lavorare quando si vive a Taormina e si hanno 15 anni e vorresti solo divertirti.

Sono cresciuta con la convinzione che gli sfizi me li devo guadagnare, forse è per questo che poi me li sono sempre goduti.

La prima volta che sono partita per un mese e mezzo risale a più di 10 anni fa. Avevo talmente pochi soldi ed ero talmente poco organizzata che quell’esperienza rimarrà per sempre l’avventura per eccellenza.

Chiedevo passaggi, saltavo sui primi bus più economici, dormivo dove capitava, negoziavo per ore ed ore, quando alle porte del deserto mi resi conto di non avere più soldi in contanti e, ovviamente mi viene da dire, non c’erano banche dove potessi prelevare qualche dirham, ho anche cominciato a scambiare i miei bene per i loro.

Le priorità si erano invertite. Loro avevano bisogno di antidolorifici ed io di un turbante, di acqua e qualcosa da mangiare.
Ci lascia anche un accendino come bonus.

Poi è cominciato il giro del mondo. Per 6 mesi ho viaggiato senza avere un blog, usavo facebook al quale la mamma si era iscritta per poter essere sicura che stessi sempre bene. Poi in seguito anche mio padre ha aperto il suo account.

6 mesi dopo nasce un blog. Preso così, alla leggera.

Più i mesi passavano più la mia impresa sembrava facesse scalpore. Ricordo che mi sembrava tutto così normale che non capivo perchè una donna da sola in viaggio per qualche anno potesse riscuotere tanto clamore.

Iniziano ad arrivare i commenti, i primi soldini, i fans su facebook e twitter. Ad una iniziale emozione, in quel nuovo e strano mondo, segue man mano la sensazione di portare sulle mie spalle un peso che non ero sicura di voler portare più.

In Australia dopo 6 mesi in asia in cui ho sofferto un pò la solitudine ed in cui non mi sono mai sentita la persona giusta al posto giusto, inizio a credere che forse è il caso di tornare a casa.
Ero stanca di quella vita.

“Non smettere ti prego. Stai vivendo il sogno di molti”

Credeteci o meno, ma questa frase scritta da uno degli utenti che aveva cliccato I LIKE su facebook mi ha fatto pensare che forse dovevo continuare seguendo quel progetto che davvero non era granchè pianificato.

Come potevo voler smettere di viaggiare quando c’era chi avrebbe fatto carte false per farlo? Stavo davvero vivendo il sogno di tanti?

Continuo quindi, ma in Sud America si ripropone la stessa sensazione, amplificata all’ennesima potenza.
Non ne potevo più. Ma c’era quel blog, quella creatura nata un pò per gioco, che era cresciuta più di quanto potessi immaginare e cosa sarebbe successo a quel punto?

Ma peggio ancora accadde quando ebbi la sensazione che questa stessa creatura si stava ritorcendo contro di me.
La libertà che avevo assaporato stava diventando una schiavitù. Dovevo aggiornare i posts, caricare le foto, i giorni che non facevo niente mi sentivo quasi in colpa perchè dovevo come dimostrare quanto la mia vita fosse attiva e piena di nuove cose.

E io sono una poltrona.

La vita del travel blogger non è semplice, è vero. Dietro quei posts di 2000 parole a volte ci sono giorni e giorni di lavoro. C’è chi deve fotografare il cibo prima di agguantarlo, chi prova e riprova a fare foto fino a quando lo scatto non è perfetto, chi deve inventarsi qualcosa anche quando non ha un bel niente da dire.

Non parliamo del momento in cui si vedono i primi guadagni. Frustrante se l’obiettivo è quello di farne nel minor tempo possibile. Semplicemente non accade ed è inutile sperare nei miracoli.

Nel mentre arrivano le proposte di collaborazione, i soldi facili, le richieste di viaggio spesati e quindi sponsorizzati.

Ne ho fatto uno. Un disastro.

Eppure è stata proprio questa esperienza a farmi capire che la vita da “travel blogger in giro per il mondo e brand per enti del turismo o agenzie di viaggio o checchesia” non faceva per me.
Questo era un compromesso che non potevo accettare perchè mi portava a vedere luoghi nuovi ma non a viaggiare.

Stavo odiando quel “lavoro” e stavo odiando me per aver barattato il mio amore per i viaggi per dei soldi. Il mio desiderio di avventura per una esperienza impeccabile e ben organizzata. La mia incapacità a scrivere due sole parole ma l’obbligo di farlo.

Mi sentivo spaccata a metà, io che stavo mesi e mesi in un Paese seguendo l’umore del momento mi sono trovata a fare tours de force di 5 giorni che mi ha solo regalato tanto mal di testa e troppe chiacchiere.

Ma un problema rimaneva.

Come potevo quindi tenere interconnessi ma anche separati il blog che era ormai avviato, il mio amore per i viaggi (senza foga e senza fretta) e la possibilità di continuare a lavorare, quindi guadagnare?

L’idea è arrivata da chi mi seguiva e chi mi leggeva.

Le richieste di aiuto per organizzare viaggi in destinazioni complesse che conoscevo molto bene perchè vi ho passato mesi, mi hanno lentamente portata a fare quello che svolgo oggi ovvero la consulente di viaggi per alcune destinazioni in Africa e Sud America.

Sono serviti due anni per trovare la mia strada, incappando anche in attività che mi hanno fatto credere che avevo sbagliato tutto.
Ecco perchè non sono una travel blogger di professione.

Sono una travel blogger ed una viaggiatrice per diletto, ed una microscopica imprenditrice di professione. O una che ci prova.

Non chiamatemi travel blogger. Chiamatemi free lance, consulente, micro-imprenditrice.

Qualsiasi termine utilizziate è sicuramente più azzeccato. Anche pazza o sognatrice. Con questi poi non andate tanto lontani dalla realtà.

Giulia Raciti

Nomade Digitale e free lance dal 2011. Mi occupo di SEO, SEO Copywriting e creazione Siti Web utilizzando Elementor

Questo articolo ha un commento

  1. Elvio Spiraglio

    Ciao Giulia,
    voglio dirti GRAZIE per questo bellissimo articolo che ho letto dall’inizio alla fine, tutto d’un fiato e senza perdermi neanche una virgola…alla faccia di chi dice che su internet bisogna fare post brevi!
    Mi è sembrato, nel mio piccolo di nemmeno due anni di esperienza di blogger…di connettermi alla perfezione con ciò che volevi esprimere… il “dovere” a pubblicare, le foto al cibo prima di mangiarlo…tutte sensazioni per me ancora nuove ma che mi hanno portato più di una volta a chiedermi: “per chi sto facendo tutto questo? Per me stesso? O per chi mi legge?”
    E mi viene in mente la frase di Oscar Wilde, che diceva che esiste solo una cosa peggiore di non realizzare i propri sogni…che è…appunto, realizzarli.
    Credo che la soluzione, per ognuno di noi…sia cercare il nostro percorso. Trovarlo. Battere una strada che sia la nostra, solo nostra, senza ripercorrere percorsi già battuti da altri, che si tratti di essere blogger, musicisti, avvocati o medici…l’importante è trovare il NOSTRO modo di svolgere la professione che svolgiamo…in quel caso sono sicuro che riusciremo a fare tutto quello che facciamo senza che ci pesi, fossero anche mille scatti al cibo prima di azzannarlo con una fame da lupi! un abbraccio

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