La caffettiera etiope tra gli altri oggetti etnici nel mio salotto vale più di qualsiasi altro souvenir portato a casa dopo un lungo viaggio.
In verità di souvenir ne porto sempre molto pochi. L’idea di avere quel peso sempre addosso sulle mie spalle mi ha sempre fatto desistere dal fare acquisiti in più occasioni.
Se si viaggia per lunghi periodi il peso in zaino è l’ultima delle cose che vorresti.
Ma in Etiopia non appena l’ho vista, a meno di 24 ore dall’arrivo ad Addis, questa caffettiera di coccio nero, appoggiato su una corona di paglia che serve per reggerlo, ho sentito che avrebbe rappresentato qualcosa importante nel mio viaggio.
E adesso sul mobile tra la borsa di zucca delle donne Hamar e una scatola acquistata verde smeraldo in Marocco 10 anni fa, riesce a portarmi, più di qualche altro oggetto, nel viaggio che mi ha piacevolmente toccata.
Rewind….. dicembre 2014 a Turmi, in un villaggio Hamar
La notte nella tenda in cui dormivo nella tribù hamar mi piaceva spegnere la luce e sprofondare nel buio più pronfondo ed in quel silenzio che realmente non è.
Sono lontana da bars e ristoranti. Lontana dalle luci. E protetta da una tenda che come un sottile velo mi separa dal quel mondo così diverso, ascolto i rumori del villaggio.
Le capre belano che sembra si lamentino sempre. Le mucche, ben messe e comunque di indole più tranquilla, ogni tanto muggiscono.
Sento i genitori di Kala chiacchierare nella capanna accanto alla mia tenda. Li immagino seduti attorno al fuoco che funge da braciere ma anche come sistema per affumicare la capanna per evitare, o diminuire, l’ingresso di zanzare e parassiti, in queste case che hanno mura fatte di tronchi.
Il pomeriggio la signora mamma di Kala, coperta dalla cinta in giù da una gonna in pelle di capra, stava scuoiando le pelli dell’animale morto per farne un vestito nuovo per l’altra delle figlie.
Sempre così belle ed impreziosite da monelli fatti di perline colorate, a petto nudo sul quale, come uno scudo, si veste la pelle di capra ben ripulita e seccata. Ma quell’odore rimane, ed è così loro.
L’odore degli Hamar si riconosce. Lo riconoscerei tra 1000 al punto da non aver lavato per settimane la sciarpa impregnata.
Le trecce nei capelli impastate di ocra, le pesanti e grosse collane che raccontano la tua vita privata, sposata, prima moglie o seconda, vedova, i bracciali, le cavigliere e le polsiere colorate, conchiglie sugli abiti, sono gli elementi principali nel viaggio in un mondo che può sembrare degli altri tempi ed improbabilmente contemporaneo.
C’è chi definisce questa area uno “human zoo” (zoo umano), la mia esperienza è stata molto umana e per niente zoo. Ma ci vuole sensibilità e forse tempo per poter vedere degli aspetti che al turista frettoloso ed ossessionato dalle fotografie potrebbero indispettire e lasciare perplesso.
“Perchè in Etiopia?” mi chiede Andrea mentre beviamo una birra Green Devil nel salotto di casa sua.
“Perchè l’Africa?”
Io, a dire il vero perchè l’Africa non lo sapevo prima di toccarne suolo. Ma quella caffettiere nel salotto di una casa mi racconta ogni giorno perchè andarci e anche perchè, eventualmente, tornarci.