Addis Abeba – 2 Novembre 2014
Cara Lucia,
finalmente trovo un po’ di tempo per scriverti e raccontarti un po’ come va in terra africana, visto che so che nessuno come te aspetta qualche news da qui, Continente di terre che tu ami tanto, dal quale riesci a stare lontana con incredibile difficoltà, ed a cui pensi ogni singolo giorno dalla tua scrivania dello scintillante ufficio tanto diverso da quello di Freetown.
Mi chiedi come va quaggiù, ed immagino l’entusiasmo della tua voce nel farlo.
Lo sento, ti conosco bene amica mia e per non deluderti ho aspettato che quello che stavo vivendo passasse. Volevo fortissimamente poter raccontarti una Africa come quella che tu hai sempre raccontato a me, ma all’inizio non ce la facevo.
Non si avvicinava neanche lontanamente ai tuoi racconti e così ho atteso. Fino ad oggi, che sono più tranquilla e posso dirti che la tua visione e la tua passione sono state chiavi importanti per approcciarmi a questo Paese che mi ospita e che, gradualmente, sta lasciandomi entrare. Anche se in punta di piedi.
L’impatto è stato forte, anzi fortissimo. Ero spaesata e disoreientata, è stata la prima volta per me in un mondo nero, totalmente nero, Giamaica a parte dove in effetti ho avuto la stessa identica sensazione.
Ma non solo, i primi giorni la mia attenzione è stata catturata dalle sue denotazioni forse più tristi. Senza riuscire ad andare oltre e senza alcuna logica di comprensione.
La povertà in primo luogo.
Una povertà che lentamente, man mano che i giorni passavano, cominciava a dare spazio ad altro, sicuramente più felice denotandosi di una accento di normalità, almeno in considerazione al fatto che sono qui e non più a casa mia.
Ma tu sai meglio di me, visto che ci hai vissuto, quanto possa essere difficile trovare un punto di contatto con il nostro stile di vita, di come ci si debba adattare a quanto ci sta attorno, e che questo può accadere solo sondandone le tradizioni e facendo tante domande, per lo meno per capire cosa è normale e cosa no, chi sta bene e chi no. E di tutto questo me ne sto facendo una ragione, ma ho impiegato ormai quasi due settimane.
Ma cominciamo dal principio.
Sto ancora in fase metabolizzazione e ho la testa talmente tanto piena di informazioni e novità che mi viene difficile poterle mettere una accanto all’altra, anche perché mi rendo conto che la mia percezione di questo Paese sta cambiando.
Comincio a sentirmi a mio agio nelle situazioni quotidiane fatte di passeggiate per le strade caotiche di Addis, quando la gente mi parla, quando i bambini mi “infastidiscono”, quando mi si ripete continuamente “birr, birr” o “money, money” o ancora “faranji, faranji”, lasciando che questo accada senza che mi si spezzi il cuore sopraffatta da un senso di impotenza ma pensando, invece, a COME posso attivarmi per contribuire in maniera critica e d’impatto più sensato e produttivo, che non fosse dare la monetina lasciando trapelare, ed incentivare, un senso di “dipendenza” nei confronti del turista che si può sentire sopraffatto e sfiancato dalle continue richieste.
Con il passare dei giorni mi sembra che queste richieste vadano via via diminuendo, o forse sono io che ormai sono abituata e cammino stavolta a petto alto e come un carro armato con la sciarpa in testa, perchè ho la costante paura dei pidocchi che in Centro America mi hanno ossessionata per settimane e per ripararmi dal sole, assumendo l’attitudine di essere una del luogo. Le cose approcciandomi così sono un pò cambiate.
Va bene oggi, è andata male nei giorni passati.
E’ un altro mondo, non potrei definirlo diversamente per quanto questo possa voler dire tutto e niente, è qualcosa che non avevo mai vissuto sulla mia pelle e che mi ha messo faccia a faccia con una realtà, anche di viaggio, a cui non ero abituata.
Trovare dei turisti nel mio stesso hotel, una volta lasciata Addis Abeba è un missione, sono finiti i tempi degli ostelli in camerata e dei mini-van organizzati tipo in Guatemala, che ti semplificano la vita.
Sono finiti i tempi dei gruppi di ragazzi provenienti da tutto il mondo che si organizzano o con cui puoi procedere per un tratto di strada, e quell’unica volta che li ho trovati io andavo ad est e loro a nord.
Erano solo 2.
Mi sono sentita sola in tante occasioni e la mia unica compagnia sono stati i libri che preventivamente avevo portato rinunciando a qualche vestito in più.
Se da questo punto di vista le cose si complicano, dall’altro mi hanno obbligata a una interazione con la gente locale come mai è accaduto prima.
Cosa che probabilmente ha fatto, e farà, di questa esperienza qualcosa di unico.
Duole ammetterlo, anche perchè a volte mi sono sentita una perdente e sconfitta in qualcosa che credevo di saper fare e anche bene e senza timori, ma viaggiare qui da soli e zaino in spalla ti costringe a molta solitudine ed incredibili sforzi, fisici ma soprattutto psichici. E se un trekking soffrendo lo porto a termini, mi sono chiesta se il dolore avrei potuto attutirlo, se a tutto questo c’era una risposta.
Dovevo cercare dei volti amici che a questo punto posso solo ritrovare solo nella gente del luogo. Non ho avuto alternative.
E questo ha fatto la mia fortuna. Questo desiderio e necessità di trovare dei punti di riferimento è stato quello che oggi mi fa sentire pronta per affrontare, seriamente e serenamente, la scoperta e l’esplorazione di questa terra fino a pochi giorni fa a me sconosciuta.
Ho incontrato Nure, un’anima gentile e nobile, il primo angelo nero che mi ha aperto le porte del suo mondo facendomi entrare dalla porta principale.
Che si è dedicato a me accompagnandomi per le tortuose e labirintiche vie del mercato più grande d’Africa ma che, soprattutto, senza conoscermi mi ha dato una spalla su cui sfogarmi il giorno che ho creduto di non poter continuare, non da sola, non a quelle condizioni, dicendomi, con la saggezza tipica degli africani e che tu hai sempre sottolineato, che ce la potevo fare, che dovevo spogliarmi delle mie convinzioni e rivedermi in quel nuovo contesto. Ho seguito le sue parole.
Sono finita a un matrimonio trattata come ospite d’onore.
Ho regalato alla mia amica Alem le prime foto di lei con il suo bambino, lei che mi chiama ogni giorno ricordandomi che le manco e facendomi diventare una “sister”.
Mi chiedi se sento la terra
La sento più che altrove e mi avvolge completamente.
La sento anche dentro le orecchie e quando soffio il naso. La sento quando mi rendo conto che la vita sociale, come il momento dei pasti, degli etiopi si svolge a terra.
Quando seduti sul pavimento mangiamo con le mani da quell’unico piatto di injera, ed in senso di benvenuto me ne mettono un boccone in bocca, quando preparano il caffè e a cui non posso dire di no.
La terra la sento se riporto tutto a qualcosa di basico, essenziale e fisico.
Lo sento dai loro racconti, dall’attaccamento alla famiglia e il senso di comunità, che credo noi occidentali ormai abbiamo perduto e, forse, non riusciamo neanche più a comprendere o che comunque abbiamo svuotato di valori, dalle storie di chi studia all’università per poter poi tornare nella propria città perchè “la terra chiama e li si ritorna”.
Negli inviti dove sono la special guest e vengo trattata come un dono da rispettare e trattare con occhi di riguardo. Io dono del cielo accolta da loro ancorati al terreno.
Ho avuto un momento di crollo, letteralmente buttato fuori con una diarrea che mi ha svuotata, come che quanto accumulato le prime settimane mi avesse coinvolta al punto tale da prendere il mio corpo per poi violentemente uscire ed abbandonarmi improvvisamente.
Dopo una giornata chiusa in guest house per uno stomaco che stava parlando al posto mio, improvvisamente mi sono sentita meglio, e la stessa cosa che ieri mi sembrava aspra e spigolosa oggi è morbida e dolce.
Dirai che forse me lo dovevo aspettare. Forse, ma io non sapevo cosa aspettarmi.
Sai benissimo che trovare informazioni sull’Africa, che vadano oltre il safari, è difficile e questo Paese è stato una grande incognita fino al giorno in cui vi ho messo piede.
E così mi sono fiondata in qualcosa che ho creduto fosse più grande di me, sentendomi impotente ed incapace a reagire, completamente perduta, in un mondo caotico che non mi dava via di scampo.
Questo fino ad oggi, 11 giorni dopo.
Con discrezione e un pò di timore mi sono avvicinata, loro hanno aperto le porte di casa, mi hanno fatto cullare i loro bambini, lavari i panni nelle bacinelle nel giardino, arrostire il caffè per la cerimonia, fatto comprare un abito tradizionale e portata beauy center.
E’ stato nel momento in cui ho iniziato a vestire i panni della quotidianità che tutto mi è iniziato a sembrare diverso, più gradevole e sostenibile, più normale.
E’ ai miei amici che devo dire grazie. Grazie alla loro presenza costante e alla fiducia che hanno riposto in me, grazie per avermi aperto le porte di casa loro, grazie per avermi dedicato il giusto tempo per “capire” dove mi trovavo e per avermi spiegato le cose più semplici, ricco/povero, etiope/somalo, che mi hanno fatto entrare nel vivo d’Etiopia esattamente da dove desidero entrare, dalle loro case.
Questa foto è per te, perchè oggi riesco a vedere i sorrisi di cui mi parlavi e fare di questi i motivi per andare avanti.
Perchè ogni giorno rimango incantata dallo stupore dei bambini nel vedersi su uno schermo in tempo reale.
Perchè hanno la saggezza e la forza di uomini adulti, non piangono e non si lamentano anche quando sarebbero autorizzati a farlo, e sanno impartirmi giornalmente una lezione di vita, semplice eppure complicata.
Comincio a capire perchè per te o Africa o niente.
Ti abbraccio forte, nella speranza di poter tornare insieme in terra africa
la tua amica Giulia
Wow!
Mi ha colpito questo – su un altro post – “Mal d’Africa è pensare di volare in Asia e poi comprare un biglietto per Dar Es Salaam.” Io il mal d’Africa ancora non ce lo posso avere, perché poi ho sempre pensato che quello lì sarebbe stato l’ultimo continente, quello per “quando sarai pronta”. E nell’urgenza di rimettermi su un mezzo – vento in faccia – da sola, stavo pensando di tornare in India. Poi mi è capitato sotto mano questo.
E forse vado in Africa per la prima volta.
Grazie,
Roberta
Ciao Roberta,
ed in effetti credo che questo sia un continente da viaggiare “quando sarai pronta”. Può essere ostico e complesso che o sei pronta per affrontarlo o rischi di odiarlo. Anche se onestamente credo che se hai affrontato l’India l’Africa non è poi così lontana.
Un saluto e scusa il ritardo nella mia risposta!
ciao
giulia