Caro Franco,
se solo tu potessi ricevere questa email e potessi rispondere, con il tuo tatto e la delicatezza di sempre, so cosa mi avresti detto di fare, so che in poche, chiare e limpide righe avresti approvato questo mio cammino nel mondo nero, a cui anelavo da tanti anni, dandomi il tempo di adattarmi e la forza per non mollare.
Oggi volevo mollare. Ma mi sono seduta ed ho aspettato.
Seduta sul terrazzino di questa graziosa guest house, con un bagno improponibile, vedo la gente di Addis passarmi davanti e così mi chiedo “chissà dove andranno”, chissà cosa fanno per vivere. Lascio che la mia curiosità si riappropri della mia testa e questa strana immotivata paura le ridoni spazio.
Mi hai insegnato tu che per viaggiare ci vuole coraggio, che per scoprire ed essere avventurosi ci vuole stomaco, spirito di adattamento ed accettazione, che quando le cose sembrano non voler andare per il verso giusto, allora è il momento di rivedersi e cambiare attitudine e direzione e concedersi la gioia della scoperta accettando le diversità, anche quelle più incomprensibili.
Così Etiopia, caro Professore. Ce l’ho fatta.
Ricordo quando nel terrazzino di casa tua a Campo dei Fiori bevavamo un caffè e discutevamo del mondo, dei tetti di Roma che tanto ti piacevano e del futuro che hai sempre descritto come prospero e felice e che a me, che avevo 20 anni, sembrava essere invece un grande punto interrogativo e incuteva timore nonostante la vitalità della mia gioventù.
Tanti sogni e poca concretezza, e anche tu eri così in qualche maniera forse è per questo che mi hai “eletta” a tua discepolo (ho sempre avuto la sensazione di essere stata la tua preferita tante cose ci accomunavano), sognavamo insieme nel mentre che mi inculcavi il germe del viaggio e della scoperta come motore che avrebbe animato buona parte della mia vita.
Tu sei sempre stato un visionario, uno che nonostante l’animo “antico” e da gentiluomo di altri tempi, sapeva vedere più in là delineando esattamente quello che poi è accaduto e che a me, al tempo, sembravano fatti difficilmente concretizzabili.
Durante il volo per Addis ti ho sognato, quelle ultime parole che non ti ho mai detto sono ancora oggi un grande peso per me, così in sogno o nei momenti di silenzio ti parlo come se potessi ascoltarmi. Un modo per redimermi per essere stata lontana quando invece avrei dovuto essere li il giorni in cui tutti ti hanno salutato per l’ultima volta.
A volte credo di continuare a viaggiare per te, per renderti orgoglioso.
Sono atterrata in Etiopia 6 ore dopo la partenza. All’apertura del portellone dell’aereo un caldo appiccicoso e uno strano odore mi hanno avvolta. Che strano e particolare forte odore quello dell’Africa, se mi bendassero e mi facessero volare qui senza dirmi la destinazione la riconoscere tra mille.
Addis Abeba è una città grande e caotica, rappresenta quello che io credevo fosse squisitamente indiano, un “troppo” che non sono mai stata sicura di voler affrontare così da accantonare queste realtà per anni rimandando i viaggi in queste destinazioni per quando mi sarei sentita pronta.
Ma forse pronta, per me che per anni ho sofferto di crisi di panico nella folla, non sarei mai stata e dovevo arrivare fin qui nella totale ignoranza per mettermi di fronte alla mie più grandi paure: la folla esagerata e la povertà più impietosa.
E Addis mi ha presa in contropiede facendomi trovare tutto quello che fino ad oggi ho allontanato e rimandato ad altri tempi: caos, puzza, povertà, aria pesante, lingue incomprensibili e assenza di punti di orientamento.
Non solo. Sono in un mondo nero che per anni ho sognato senza aver mai avuto il coraggio di affrontarlo semplicemente perchè tanto differente e quindi fonte di paure inspiegabili.
Il mercato della città (Merkato) è il più grande d’Africa, ho avuto timore quando stavo avvicinandomi.
Nure era con me e la sua presenza è stata di grande aiuto quando la grossa folla mi veniva incontro trasportando sulla schiena decine di contenitori di plastica o reggendo in equilibrio sulla testa pile di materassi, alzando un grosso polverone mentre sentivo gli occhi puntati addosso rivolgendosi a me con parole in amarico che non capivo.
Ho avuto bisogno di un bastone a cui appoggiarmi, una persona che mi aiutasse ad entrare in contatto con l’Etiopia nera che se negli angoli piu vuoti, come la camera di hotel, mi entusiasmava in quelli più pieni, come il mercato, invece mi toglieva l’aria e mi schiacciava.
Ho bevuto un caffè nel cuore del mercato, non perchè lo volessi davvero, poco dopo mi è venuta la diarrea e non so se questo possa essere uno dei motivi scatenanti, ma perchè a volte credo che scendere dal piedistallo ingerendo il loro cibo lasciando che mi imbocchino bevendo le loro bevande, pur sapendo che l’acqua utilizzata farà reagire il mio stomaco ancora troppo debole, sia un passo necessario da fare per lasciarmi entrare nel loro mondo.
Devo diventare una di loro e la condivisione del cibo e delle bevande è una porta di ingresso che mi ha sempre facilitato questo passaggio.
L’altro Franco. Quanta instabilità può creare in un mondo che ci siamo creati apparentemente equilibrato. E quante volte ne abbiamo parlato lasciandomi ascoltare i tuoi racconti in cui vedevi ALTRI in tutti i dove. Anche tua figlia per me era “altra”. Eclettica e creativa così diversa da te così ligio e con il ciuffo sempre in ordine.
Ed il nero è Altro per me come non lo è stato nessuno prima.
Lo scontro dei colori della pelle in Etiopia, dove mi sono sentita troppo bianca e troppo sola in questa colorazione per poter resistere ed uscirne vittoriosa, mi ha condizionata come mai in precedenza.
E’ stato difficile superare i pregiudizi ed i preconcetti che avvolgono i milioni di persone che oggi sfrecciano attorno a me i cui sguardi per qualche motivo sono incredibilmente profondi e non riesco ad evitare lasciando invece che leggano quanto i miei hanno da dire.
Piano piano ho cominciato a fare a meno di Nure, dandomi dei tempi e dei percorsi da seguire, ho anche imparato un paio di parole di amarico per poter rispondere in tono quando vengo avvicinata.
Ho cominciato a fare i conti con la povertà di cui credevo aver fatto esperienza nel passato ma che qui mi ha invece abbattuta come un macigno caduto dal cielo e che mi ha presa in pieno.
C’è gente sporca e senza vestiti ad ogni angolo, il mondo dell’albergo dove alloggio, che è il primo albergo d’Etiopia in stile coloniale e che per qualche motivo è anche piuttosto economico, mi taglia fuori da quello che invece non può passare indifferente non appena si mette fuori il naso al di là del cancello controllato giorni e notte da guardie armate.
Mi piace il Taitu hotel in effetti, gli interni in legno a volte quando il salone è vuoto e il pianista suona melodie da saloon degli anni ’20 sul pianoforte ormai un pò scordato mi fa pensare allo splendore che deve essere stato un tempo questo luogo, chiamato in onore della prima regina del Paese.
L’immagine di danza che ho in testa quando sto seduta in sala stride con il miscuglio di musica/puzza/grida/Faraji-Faranji che si affronta quando si supera il confine segnato dalla sbarra che delimita Addis dal “mondo Taitu”.
Dehna Hunu (arrivederci) o Salam(no), dico, e con lo zaintetto in spalla vado alla ricerca di un posto indefinito il cui raggiungimento mi lasci camminare senza pensare per un momento.
Ho camminato per tanto tempo, non so quanto, smettendo di farmi domando per un pò.
Forse il primo passo <<oltre>> è stato fatto.
Se solo tu potessi rispondere a questa lettera so che le parole giuste arriverebbero, so che mi avresti detto di continuare, con lo stesso affetto di un padre che desidera che la propria figlia riesca a superarsi senza lasciarsi impaurire. Hai sempre creduto nella mia forza più di quanto non abbia fatto io stessa.
Immagino quello che avresti da dirmi e io continuo a raccontarti dell’Etiopia e di me in questo Paese.
Perchè come mi hai insegnato non c’è viaggio senza viaggiatore.